Si definisce polipo una tumefazione che origina dalla parete e si accresce all’interno del canale intestinale, e può essere piatto oppure avere un peduncolo. Rappresenta il tipo più frequente di lesione del tratto colo rettale manifestandosi nel 15-20% della popolazione adulta. Anche se la gran parte di essi sono benigni, esiste una relazione accertata tra alcuni e il cancro. Nella maggior parte dei pazienti, i polipi colorettali non danno sintomi e vengono diagnosticati accidentalmente nel corso di un esame endoscopico o radiologico del tubo digerente. In alcuni casi, tuttavia, possono produrre sintomi quali emissione di sangue o muco con le feci, alterazioni delle abitudini intestinali o, raramente, dolore addominale.
La diagnosi si basa sull’esame endoscopico (colonscopia) o radiologico (clisma opaco con soluzione di bario), entrambi richiedenti una specifica preparazione intestinale, il primo eventualmente eseguibile sotto sedazione. Anche l’esame del sangue occulto nelle feci può rivelare la presenza di una patologia del colon-retto, peraltro la sua assenza non esclude la presenza di polipi. Poiché in nessun caso è possibile prevedere con certezza l’evoluzione maligna di un polipo, si impone la asportazione totale di esso con esame istologico, mediante l’uso di un’ansa che viene fatta passare in un apposito canale dello strumento.
Nella maggior parte dei casi, tale procedura viene agevolmente eseguita in regime ambulatoriale, polipi più grandi possono richiedere più di una seduta endoscopica per la loro asportazione completa, infine altre lesioni sono asportabili solo con intervento chirurgico a causa della posizione o delle dimensioni. Dopo rimozione completa del polipo, la recidiva è altamente improbabile, ma non può essere esclusa, per cui il paziente deve ricorrere al chirurgo colo rettale per la pianificazioned di regolari controlli endoscopici nel tempo.
Si tratta di una condizione molto diffusa, specie con l’avanzare dell’età, spesso asintomatica. I diverticoli sono delle tasche che si sviluppano in corrispondenza di zone deboli della parete del colon, generalmente la parte sinistra del colon. La dieta a scarso contenuto di fibre, determinando l’aumento della pressione all’interno del colon, favorisce la formazione di queste sacche.
I sintomi più frequenti sono il dolore addominale (abitualmente nei quadranti inferiori di sinistra), diarrea, alterazioni delle abitudini intestinali e occasionalmente emorragia di grado severo. Tali sintomi, peraltro, compaiono solo in una piccola percentuale di pazienti con diverticolosi del colon e sono difficilmente differenziabili da quelli che si manifestano in altri disordini intestinali (vedi colon irritabile).
L’infiammazione o infezione di un diverticolo definisce il quadro della diverticolite, che si manifesta con dolore, brividi, febbre e alterazioni delle abitudini intestinali. Le forme severe di diverticolite possono a loro volta complicarsi con infezioni della cavità addominale, formazione di fistole con la vescica o la vagina, fino allo scoppio del segmento di colon interessato, tale da richiedere l’intervento chirurgico urgente.
Il trattamento della diverticolosi del colon è generalmente conservativo, basato su norme dietetiche (incremento della quota di fibre, quali cereali, legumi, verdure …) e, in alcuni casi, sull’assunzione di farmaci (per il controllo del dolore e per al regolarizzazione della funzione intestinale).
Il trattamento della diverticolite è più impegnativo e prevede l’uso di antibiotici per via orale e restrizioni dietetiche. Nei casi severi può rendersi necessario il ricovero in ospedale, con la somministrazione di antibiotici per via endovenosa e restrizioni dietetiche molto rigide.
L’indicazione al trattamento chirurgico si pone nei casi di attacchi ricorrenti o severi, o in presenza di complicanze. E’ possibile procedere alla resezione del tratto di colon interessato, generalmente il sinistro, con riabboccamento al retto, immediato o differito.
Le malattie infiammatorie che interessano il colon sono la colite ulcerosa e il morbo di Crohn. Ambedue colpiscono la mucosa intestinale e provocano dolore addominale, diarrea e rettorragia, ma devono essere distinte poichè il trattamento è piuttosto differente.
La colite ulcerosa colpisce il colon e il retto. Il trattamento chirurgico è indicato nei casi refrattari alla terapia medica, inpresenza di rischio neoplastico elevato e in presenza di complicanze quali l’emorragiamassiva, la dilatazione colica da megacolon tossico, la stenosi occlusiva.
Il termine “stomia”, di derivazione greca, indica l’abboccamento, creato chirurgicamente, di un viscere alla superficie cutanea. Nella pratica corrente, ci si riferisce più frequentemente all’”ileostomia” (abboccamento dell’intestino tenue) e alla “colostomia” (abboccamento dell’intestino crasso). La stomia può essere temporanea o definitiva. Nel primo caso, essa è giustificata dall’impossibilità di preparare adeguatamente alla chirurgia il tratto intestinale in questione a causa di una condizione ostruttiva, oppure dalla necessità di assicurare l’esclusione del tratto intestinale dal passaggio del materiale fecale allo scopo di consentirne la guarigione dal processo patologico di base.
Si deve invece ricorrere alla stomia definitiva quando la normale funzione intestinale risulta compromessa dalla patologia di base oppure nei casi in cui si rende necessaria l’asportazione dei muscoli che controllano la funzione sfinteriale del retto.In entrambi i casi, si tratta più frequentemente di pazienti affetti da neoplasia del retto basso o da patologia infiammatoria. Il paziente portatore di stomia intestinale sarà addestrato da personale specializzato nell’applicazione e nel cambio della placca destinata a raccogliere il contenuto viscerale. La presenza di una colostomia può richiedere l’apprendimento delle tecniche di irrigazione della stessa così da assicurare un controllo più efficace dei movimenti intestinali.
E’ importante sottolineare che la presenza di una stomia intestinale non interferisce con gli aspetti quotidiani della vita di relazione, persino con l’attività sportiva! Anche una normale vita sessuale viene ripresa dalla maggior parte dei pazienti atomizzati ed eventuali disfunzioni sessuali nell’uomo sono legate non alla stomia, bensì alla soppressione dei nervi che decorrono in prossimità del retto e che controllano le varie fasi dell’erezione e dell’eiaculazione. A questo proposito i pazienti possono giovarsi dell’aiuto di personale dedicato ed entrare a far parte di gruppi di supporto, mediante il confronto con altre persone che condividono le medesime problematiche.
Si definisce prolasso rettale la fuoriuscita dell’intestino retto al di fuori dell’ano (prolasso totale) o all’interno del suo lume (prolasso retto-rettale o retto-anale o intussuscezione). Il primo è ben visibile all’esterno specie dopo le manovre di espirazione forzata a glottide chiusa (ponzamento) e può essere ridotto manualmente dallo stesso paziente. Il secondo viene generalmente indagato con esami radiografici, quali la defecografia che consente di valutare la dinamica della funzione defecatoria dopo somministrazione di mezzo di contrasto per via orale. A volte è solo la mucosa del retto a prolassare, per cui si parla di prolasso mucoso, generalmente associato alla malattia emorroidaria (prolasso muco-emorroidario).
I sintomi principali del prolasso rettale sono rappresentati da stipsi (sindrome da ostruita defecazione), persistenza dello stimolo dopo evacuazione, emissione più volte al giorno di scarse quantità di feci, la necessità di uno sforzo defecatorio prolungato eventualmente accompagnato all’ausilio delle dita della mano fino alla vera e propria estrazione manuale del cilindro fecale, difficoltà a trattenere i gas e le feci in rapporto allo stiramento cronico delle fibre muscolari dello sfintere anale, emissione di sangue o muco dalla mucosa prolassata. Nelle donne in età menopausale che hanno avuto parti multipli specie se difficili si osserva spesso la concomitante presenza di altri disturbi a carico dell’apparato genito-urinario, quali prolasso genitale, vescicale (cistocele) con o senza incontinenza urinaria, la cui correzione chirurgica richiede la collaborazione di altre figure professionali (ginecologo, urologo).
Il trattamento del prolasso rettale sintomatico è necessariamente chirurgico, per via addominale (in chirurgia aperta o laparoscopica), oppure attraverso l’orificio anale. La via addominale, in anestesia generale, specialmente adottata per prolassi completi ed in soggetti giovani, consiste nell’ancoraggio del retto all’osso sacro con o senza materiale protesico; nei pazienti con patologia colorettale associata (diverticoli, colon a monte eccessivamente convoluto e tortuoso o dolicocolon) inoltre si può eseguire la resezione del tratto intestinale interessato.
La correzione chirurgica del prolasso rettala per via transanale, praticabile in anestesia spinale, si inquadra nella tecnica cosiddetta STARR (dall’inglese resezione del retto per via transanale con suturatrice meccanica), mediante la quale si ottiene un vero e proprio “lifting” del canale anale grazie all’asportazione del tessuto rettale responsabile dell’ostruzione da parte di apposite suturatrici meccaniche (taglia e cuci). La sutura viene eseguita separatamente sull’emicirconferenza anteriore e posteriore dell’ano. Il vantaggio di tale metodica per il paziente è la notevole riduzione del dolore post-operatorio, in quanto la sutura viene a posizionarsi in una zona interna, poco innervata, del canale anale. La degenza media è di 1-2 giorni, la ripresa dell’attività lavorativa è consentita in genere dopo 7 giorni.
Le emorroidi sono strutture vascolari (gruppi di vasi sanguigni) già presenti alla nascita. Le emorroidi sintomatiche, ossia quelle che provocano sanguinamento, dolore, bruciore e tanti altri fastidi anali, costituiscono la malattia emorroidaria. Fattori predisponenti quali età, familiarità, stipsi cronica, gravidanza, eccessivo uso di lassativi. In ogni caso si verifica la dilatazione con assottigliamento delle pareti vasali fino al prolasso, cioè la fuoriuscita della mucosa dall’ano.
Le emorroidi sintomatiche possono essere esterne o interne. Quelle esterne all’ano si presentano come protuberanze dure e dolenti, sanguinanti solo in caso di rottura. Quelle interne, invece, si sviluppano nel canale anale e risultano indolori. Sulla base di una visita proctologica accurata, è possibile pianificare il trattamento più idoneo. Nelle fasi iniziali della malattia emorroidaria, può risultare efficace aumentare il quantitativo di fibre (frutta e verdura) ed acqua nella dieta, ed eliminare gli sforzi defecatori eccessivi.
L’asportazione chirurgica dei noduli emorroidari rappresenta l’intervento radicale e s’impone nei casi di fallimento della legatura elastica, in presenza di prolasso emorroidario irriducibile o infine quando c’è un sanguinamento persistente. L’intervento chirurgico ha lo scopo di rimuovere l’eccesso di tessuto che causa sia il sanguinamento che il prolasso di mucosa rettale.
Tecnica di Milligan-Morgan: prevede l’asportazione dei peduncoli emorroidarii e la loro legatura avviene all’interno del canale anale, lasciando aperte le ferite per favorirne la cicatrizzazione spontanea. Il decorso postoperatorio può comportare un certo grado di dolore locale durante l’evacuazione, a causa delle ferite chirurgiche aperte Tecnica ideata dall’italiano Antonio Longo per risolvere il prolasso: utilizzo di una suturatrica meccanica circolare (STAPLER) in grado di rimuovere una banda circonferenziale di tessuto prolassato, con il risultato di sezionare e cucire allo stesso tempo i peduncoli emorroidarii. In tal modo è possibile risollevare la mucosa e i cuscinetti emorroidari riportandoli nella loro posizione originale. Non vengono lasciate ferite esposte e il decorso postoperatorio risulta meno doloroso dell’intervento tradizionale.
THD (“dearterializzazione emorroidaria trans anale”): non comporta l’asportazione di tessuto bensì l’interruzione dell’afflusso di sangue alle emorroidi mediante la sutura dell’arteria rettale superiore. In presenza di prolasso la mucosa viene poi riposizionata nella sua sede naturale. La THD utilizza una sonda doppler e un anoscopio per localizzare precisamente i rami terminali dell’arteria da suturare. Anche in questo caso, l’assenza di feri
La ragade anale è una piccola erosione cutanea lineare che si forma in corrispondenza dell’orificio omonimo, determinata dalla eccessiva dilatazione durante il passaggio delle feci. Principali fattori predisponenti sono rappresentati dalla stitichezza, l’abuso di lassativi, le manovre digitali per favorire l’evacuazione, la gravidanza, la diarrea, la scarsa igiene personale, lo stress.
La ragade appena insorta si definisce acuta ed è caratterizzata da uno spasmo dello sfintere anale interno, che a differenza di quello esterno è indipendente dal controllo della volontà del soggetto. Tale spasmo causa la cronicizzazione della lesione in quanto impedisce la fisiologica dilatazione al passaggio delle feci e inoltre ostacola l’afflusso di sangue e di conseguenza l’avvio di un adeguato processo di cicatrizzazione.
La sintomatologia è tipicamente dolorosa in rapporto alla presenza di abbondanti terminazioni nervose nella sede della ragade, per cui il paziente lamenta l’insorgenza di dolore intenso al momento della defecazione, specie quando le feci sono indurite e voluminose, innescando un circolo vizioso psicologico che induce ad evitare l’evacuazione stessa. Il dolore della ragade anale è caratteristicamente ritmato in tre tempi: drammaticamente acuto al passaggio delle feci, quindi si attenua per qualche minuti per poi ricomparire più o meno intenso nelle tre-quattro ore successive. Accanto al dolore, che costituisce il sintomo tipico della ragade anale, il paziente può descrivere la comparsa di tracce di sangue rosso vivo sulla carta igienica, anche se tale disturbo è molto meno evidente rispetto a quanto non si verifichi in presenza di emorroidi; peraltro le due patologie sono talora associate.
La diagnosi di ragade anale è fondamentalmente clinica, basata sul resoconto dei sintomi soggettivi e sulla visita proctologica, eventualmente corredata dalla rettoscopia, che permette di riconoscere la presenza della fessurazione longitudinale in corrispondenza del margine anale, anche se tali manovre sono spesso ostacolate dallo spasmo dello sfintere interno.
La terapia delle ragadi acute più superficiali prevede anzitutto l’adozione di norme dietetico-comportamentali basate su abbondante assunzione di acqua, integratori di fibre e blandi lassativi allo scopo fondamentale di regolarizzare la funzione intestinale. Utili sono anche i bagni tiepidi della regione anale, mirati al rilasciamento dello sfintere contratto. Un valido ausilio nella risoluzione dello spasmo muscolare viene offerto anche dall’applicazione locale di pomate a base di nitroglicerina, pomate a base di anestetici e vasodilatatori. Nei casi di persistente contrattura sfinteriale è possibile ricorrere alle dilatazioni anali mediante l’uso di dilatatori anali di diametro progressivamente crescente, una-due volte al giorno per la durata mediamente di un mese. La terapia chirurgica si impone invece nelle ragadi cronicizzate e consiste nella cauterizzazione della ragade mediante elettrobisturi e cosiddetta sfinterotomia laterale interna, vale a dire la sezione parziale del muscolo sfintere interno. Entrambi gli interventi non richiedono degenze particolarmente lunghe (normalmente il paziente viene dimesso in regime ambulatoriale nel giro di 24 ore) e presentano un basso rischio di complicanze.
L’ascesso perianale è una cavità contenente pus situata in corrispondenza del canale anale o del retto ed è il risultato dell’infezione acuta di una delle piccole ghiandole annesse al canale anale. L’insorgenza di questa affezione è favorita da alcune patologie, quali la colite o altre patologie infiammatorie dell’intestino.
La fistola perianale, quasi sempre evoluzione di un precedente ascesso, è un piccolo tunnel compreso tra la ghiandola anale, da cui è originato l’ascesso, e la cute della regione glutea. La comparsa della fistola può avvenire dopo un tempo variabile dall’ascesso, generalmente dalle 4 alle 6 settimane, ma in qualche caso anche alcuni mesi o anni più tardi. La persistenza di questo tunnel diviene evidente dopo il drenaggio dell’ascesso, con la fuoriuscita di materiale purulento dall’orifizio esterno (cutaneo).
I sintomi di queste affezioni comprendono il dolore accompagnato da gonfiore locale, irritazione della cute perianale, fuoriuscita di pus che spesso determina un sollievo dal dolore, febbre e malessere generale.E’ importante sapere che la fistola si sviluppa in circa il 50% dei pazienti con ascesso perianale e che in ogni caso questa evoluzione è assolutamente imprevedibile.
Il trattamento dell’ascesso perianale prevede l’incisione della cute sovrastante allo scopo di ottenere il drenaggio del contenuto di pus. Piccole cavità ascessuali possono essere trattate in regime ambulatoriale con anestesia locale, mentre quelle più ampie o profonde possono richiedere il ricovero ospedaliero e altre forme di anestesia, specie se trattasi di pazienti fragili come quelli diabetici o immunodepressi. La terapia antibiotica da sola non è risolutiva, in quanto la molecola, trasportata dalla corrente sanguigna, non può penetrare nel contenuto della cavità ascessuale.
La chirurgia si impone nel trattamento della fistola perianale, preferibilmente ad opera di un professionista esperto di chirurgia colo rettale. L’intervento consiste di solito nella sezione di una piccola porzione del muscolo sfinterico anale allo scopo di aprire il tunnel e trasformarlo quindi in un solco fino a ottenere la guarigione procedendo dall’interno verso l’esterno. Il più delle volte il paziente viene operato in regime di day-hospital o comunque con mediante breve ricovero.
Dopo il trattamento chirurgico di queste affezioni, l’astensione dall’attività lavorativa o scolastica è generalmente minimizzata. L’eventuale comparsa di dolore viene dominata con ordinari antidolorifici per via orale. Si raccomanda di eseguire un bidet in acqua tiepida 3-4 volte al giorno, l’assunzione di lassativi può essere indicata per ammorbidire le feci. Le recidive della patologia perianale sono improbabili, specie se ci si affida a un valido chirurgo colorettale.
Il trattamento radicale del cancro del retto si identifica con la resezione anteriore o l’amputazione addomino-perineale secondo Miles con escissione totale del mesoretto secondo Heald, procedure tuttavia gravate da una significativa morbilità con sequele funzionali anche molto importanti. Molti pazienti inoltre oppongono un rifiuto psicologico alla prospettiva di una colostomia permanente, in particolare nei casi di tumore del retto basso.
L’alternativa alla chirurgica radicale è rappresentata dalle tecniche di escissione locale, realizzabili in gruppi selezionati di pazienti, che consentono di asportare neoplasie rettali anche voluminose senza aprire l’addome e conservando lo sfintere. Gli adenomi sessili del retto e gli adenocarcinomi rettali di piccole dimensioni al di sotto della riflessione peritoneale possono essere trattati localmente con tecniche conservative, mediante approccio transanale o transsfinterico.
Lesioni di piccole dimensioni del retto basso possono essere escisse con i divaricatori di Parks o di Pratt, al contrario lesioni benigne di diametro superiore ai 3 cm e tumori più prossimali sono aggredibili localmente solo con tecnica di Microchirurgia Endoscopica Transanale (TEM) mediante rettoscopio di Buess.
Viene impiegato un tubo rettoscopico a grande lume con terminale obliquo, in unione solidale ad un braccio articolato ancorato al lettino. Si utilizza una speciale ottica binoculare a visione 50° stereoscopica che conferisce le condizioni della micro-chirurgia endoscopica. Un dispositivo permette di introdurre contemporaneamente fino a 3 strumenti per operare sotto visione. La tecnica prevede la distensione delle pareti con gas CO2 a pressione controllata, l’irrigazione della lente dell’ottica con soluzione salina e l’aspirazione di sangue, secrezioni e fumi.