Nell’ambito del carcinoma gastrico, che costituisce il 25% in tutti tumori dell’apparato digerente, sono in costante declino a livello mondiale le forme a carico delle porzioni di stomaco distali, contro un aumento delle forme prossimnali. Il cosiddetto early gastric cancer è definito come un adenocarcinoma istologicamente confinato alla mucosa e sottomucosa. Il trattamento chirurgico di questa lesione assicura una percentuale di guarigione del 90%. La chirurgia costituisce l’opzione terapeutica primaria del carcinoma gastrico essendo l’unica in grado di consentire sopravvivenze a lungo termine. Attualmente anche per questa forma tumorale si utilizzano tecniche chirurgiche laparoscopiche. Analogamente agli altri tumori dell’apparato gastroenterico la prognosi del carcinoma gastrico dipende dalla presenza di metastasi a distanza, dal grado di invasione parietale e dallo stato dei linfonodi.
I tumori benigni del fegato, relativamente comuni, possono essere del tutto asintomatici e nella maggior parte dei casi vengono scoperti accidentalmente nel corso di esami strumentali eseguiti per altri motivi (ecografia, TAC) oppure durante un intervento chirurgico sull’addome.
La neoplasia epatica benigna più rilevante è l’adenoma epatocellulare, che si manifesta soprattutto nelle donne in età fertile in rapporto prevalentemente con l’impiego, sempre più diffuso, dei contraccettivi orali che ne favoriscono lì insorgenza. L’uso di contraccettivi orali è stato coinvolto nella comparsa di un altro tipo di neoplasia epatica benigna, l’iperplasia nodulare focale, alterazione localizzata in un’area definita del tessuto epatico, anch’essa nella maggior parte dei casi del tutto asintomatica. L’angioma epatico, caratterizzato da una ricca vascolarizzazione interna, la cui presenza viene stimata in circa l’1-5% degli adulti. Analogamente all’adenoma epatocellulare, l’angioma epatico, generalmente asintomatico, può in alcuni casi raggiungere dimensioni tali da favorirne la rottura, con sanguinamento cospicuo nell’addome e indicazione a intervento chirurgico immediato. Tra le lesioni epatiche non tumorali, devono essere citate, per la loro frequenza relativamente elevata, le cisti, in genere isolate e di scarso significato clinico, per lo più diagnosticate incidentalmente con l’ecografia o la TC. Le cisti epatiche possono inoltre essere presenti nel contesto del cosiddetto fegato policistico congenito, condizione rara, associata a manifestazioni cistiche di altri organi (vedi il rene policistico), responsabile negli adulti di un aumento volumetrico del fegato talora anche importante, a fronte peraltro di una funzionalità epatica ben conservata. Le altre cisti epatiche includono le cisti idatidee o di echinococco, causate da un parassita e trasmesse dall’animale (specie la pecora e il cane) all’uomo.
I tumori maligni del fegato possono essere primitivi (quando nascono dalle cellule del fegato) o, più frequentemente nel mondo occidentale, secondari (metastasi di tumori primitivi di altri organi). Le metastasi epatiche, talora la prima manifestazione di tumori primitivi insorti in altri organi, sono favorite dalla facilità con cui le cellule maligne diffondono al fegato attraverso il torrente circolatorio: colon-retto, stomaco, pancreas, polmone e mammella sono le più frequenti sedi primitive, anche se praticamente tutti gli organi sono potenzialmente coinvolti. I sintomi delle metastasi epatiche sono correlati ad una compromissione dello stato generale del paziente (perdita di peso, anoressia, febbre), eventualmente associati al reperto palpatorio di un fegato aumentato di volume, che negli stadi più avanzati presenta superficie nodulare e consistenza dura. Gli esami di funzionalità epatica possono subire alterazioni più o meno rilevanti, così come i marcatori tumorali (CEA, CA 19-9). La diagnosi si basa sui comuni esami strumentali, quali ecografia, TC e RMN, mentre la biopsia epatica eseguita sotto guida ecografica, in genere necessaria nei casi dubbi, fornisce la diagnosi istologica definitiva. Il trattamento delle metastasi epatiche non è purtroppo sempre coronato da successo, in quanto tali lesioni sono espressione di una malattia avanzata. La chemioterapia sistemica può determinare una temporanea riduzione delle dimensioni delle metastasi e prolungare la vita del paziente, ma raramente è curativa. In alcuni centri si esegue l’infusione di chemioterapici attraverso l’arteria epatica, evitando la tossicità sistemica dei farmaci, ma la sopravvivenza non migliora in maniera significativa. La resezione di metastasi isolate, contestuale o successiva all’intervento chirurgico sul tumore primitivo, specialmente se si tratta del colon-retto, può dare risultati positivi in termini di sopravvivenza libera da malattia. Un’altra metodica di trattamento mirata alla distruzione del tessuto tumorale prevede l’uso di radiofrequenze mediante aghi o sonde (termo ablazione, sia durante l’intervento chirurgico sia attraverso la parete addominale).
Il carcinoma epatocellulare, tumore maligno primitivo del fegato, meno frequente di quello metastatico nei paesi occidentali, rappresenta in alcune aree dell’Africa e del Sud-Est asiatico la più frequente neoplasia primitiva e un’importante causa di morte. Nel mondo occidentale, la causa più frequente della comparsa del tumore è rappresentata dall’infezione cronica da virus dell’epatite B (HBV) e C (HCV), attraverso l’evoluzione in cirrosi epatica e successiva trasformazione maligna. Dolore addominale, calo ponderale, tumefazione nel quadrante superiore destro, febbre e deterioramento dello stato generale rappresentano le manifestazioni cliniche più frequenti della malattia. Occasionalmente, la rottura del tumore con conseguente emorragia in addome costituisce il primo segno della neoplasia e richiede un intervento chirurgico urgente. Gli esami del sangue hanno scarsa valenza diagnostica, se si esclude l’innalzamento dei valori del marcatore tumorale a-fetoproteina nel siero. Anche nel caso del carcinoma epatico primitivo, ecografia, TC, RMN dell’addome e biopsia epatica rappresentano gli strumenti diagnostici più importanti. La prognosi del carcinoma epatocellulare è solitamente infausta e il trattamento insoddisfacente. La resezione chirurgica può offrire in alcuni pazienti una concreta speranza di sopravvivenza. Il tumore non è radiosensibile e i risultati della chemioterapia solitamente sono scarsi, anche quando vengono usate l’infusione diretta nell’arteria epatica o la chemioembolizzazione. In pazienti selezionati e in centri altamenti specializzati, un’ulteriore opzione terapeutica è rappresentata dal trapianto di fegato.
Il pancreas è una ghiandola del peso di 70-80 grammi, a doppia secrezione, endocrina ed esocrina: la prima consiste di ormoni che regolano il metabolismo degli zuccheri (insulina, glucagone), mentre la seconda viene riversata nella prima parte dell’intestino tenue (duodeno) ed è composta da enzimi implicati nella digestione degli alimenti (amilasi, lipasi, tripsina). Le malattie del pancreas di interesse spiccatamente chirurgico possono essere suddivise in due grandi gruppi, infiammatorie (pancreatite) e neoplastiche (tumori benigni e maligni).
La pancreatite è un processo infiammatorio, acuto o cronico, a carico del pancreas. La forma acuta è caratterizzata da un’infiammazione di grado variabile fino allìauto-digestione della ghiandola ad opera degli enzimi da essa prodotti. Nei paesi occidentali, le cause più frequenti sono rappresentate dai calcoli nella colecisti o nella via biliare (coledoco) e dall’alcolismo. Altri fattori causali sono l’ostruzione del dotto pancreatico, eventi traumatici (ferite del pancreas), manovre endoscopiche (CPRE), interventi chirurgici, farmaci e sostanze tossiche, patologie quali iperparatiroidismo e ipercalcemia. La terapia prevede il digiuno assoluto e la somministrazione endovenosa di farmaci che bloccano al secrezione pancreatica, antibiotici e gastroprotettori, mentre in presenza di una calcolosi della via biliare è opportuno procedere a CPRE con estrazione dei calcoli stessi.
Con il termine pancreatite cronica vengono raggruppate tutte le affezioni del pancreas che determinano una fibrosi con indurimento della ghiandola e producono un danno permanente o disfunzione dell’organo. Importante fattore predisponente è lo stile di vita (dieta, consumo di alcool e fumo) nell’insorgenza di tale affezione, che può manifestarsi con episodi di infiammazione acuta ricorrenti sino a determinare danni cronici (dolore costante, malassorbimento persistente e diabete).
Le neoplasie pancreatiche maligne sono malattie a decorso molto aggressivo e rappresentano attualmente la 4ª-5ª causa di morte per tumore nel mondo occidentale, colpendo prevalentemente il sesso maschile e i soggetti anziani. Negli ultimi decenni, l’incidenza del cancro pancreatico è sensibilmente aumentata, sia in seguito al miglioramento delle tecniche diagnostiche, sia per un aumento generalizzato della aspettativa di vita. Tra i fattori predisponenti vengono citati il fumo di sigaretta e il diabete mellito (specie se di durata superiore ai 5 anni). I risultati deludenti del trattamento chirurgico risiedono nella diagnosi tardiva, per cui la comparsa dei sintomi (dolore addominale, inappetenza, perdita di peso significativa, ittero) coincide frequentemente con uno stadio avanzato della malattia, al di fuori di ogni possibilità terapeutica. La chirurgia rappresenta l’unica opzione terapeutica in grado di offrire qualche speranza di sopravvivenza nella piccola percentuale di pazienti resecabili e si avvale di un intervento altamente demolitivo e tecnicamente complesso, denominato “duodenocefalopancreasectomia”, che prevede l’asportazione della porzione di pancreas (“testa”) interessata dalla neoplasia, unitamente al tratto di duodeno al quale essa è anatomicamente e intimamente connessa, alla parte finale dello stomaco e alla colecisti con un segmento di via biliare. Il tempo ricostruttivo, si basa sul confezionamento di suture molto delicate (“anastomosi”) tra i visceri resecati, peraltro a rischio di cedimento (“deiscenza”) con possibilità di formazione di fistole pancreatiche di problematico trattamento. Nei pazienti inoperabili, è possibile controllare l’ittero da compressione e ostruzione della via biliare ad opera del tumore mediante posizionamento di protesi (“stent”) all’interno della via biliare (grazie all’esecuzione della CPRE) oppure si sistema un tubo di drenaggio esterno posizionato sotto guida radiologica.
La splenectomia viene presa in considerazione nelle condizioni morbose che determinano il quadro clinico cosiddetto di “ipersplenismo”, che comprende un aumento volumetrico dell’organo (splenomegalia), palpabile al di sotto dell’arcata costale di sinistra, e la riduzione di una o più popolazioni cellulari circolanti (globuli rossi, globuli bianchi, piastrine). Tale quadro clinico va incontro a risoluzione dopo splenectomia e corrisponde sotto il profilo anatomopatologico a un abnorme sequestro di sangue all’interno dell’organo. L’ipersplenismo è indotto da una serie di malattie, specie di interesse ematologico, quali le malattie linfo-mieloproliferative: anemie emolitiche croniche (sferocitosi ereditaria), piastrinopenie autoimmuni (porpora trombocitopenia idiopatica), linfomi (a fini di stadiazione della malattia). Esistono poi altre indicazioni non ematologiche alla splenectomia in elezione, quali cisti parassitarie (echinococco), ascessi splenici, aneurismi dell’arteria splenica, tumori della milza, alcune forme di malaria e tubercolosi.
La diagnosi clinica si basa sull’evidenza palpatoria dell’aumento volumetrico della milza e sulla comparsa di manifestazioni collegate alla riduzione degli elementi circolanti nel sangue periferico, quali globuli rossi (anemia), globuli bianchi (maggiore suscettibilità alle infezioni) e piastrine (emorragie delle mucose, ecchimosi cutanee). Le indagini ematologiche comprendono l’esame morfologico del sangue su striscio e il puntato midollare che mostra l’aumento a scopo compensatorio dei precursori degli elementi cellulari carenti nel sangue periferico.
Nella maggior parte dei casi, il trattamento è rivolto alla malattia di base, anche perché la privazione della milza espone il soggetto a una maggiore frequenza di infezioni batteriche anche gravi (Haemophilus influenzae, pneumococco, meningococco), per cui è necessaria la somministrazione di specifici vaccini protettivi. Sulla base di tali considerazioni, va quindi sottolineato come l’indicazione alla splenectomia di elezione nelle condizioni cliniche sopradescritte è tutt’ora oggetto di dibattito e riservata solo in casi altamente selezionati. A parte la rottura traumatica della milza, che richiede necessariamente l’apertura tradizionale della cavità addominale, la tecnica chirurgica della splenectomia si avvale oggi della laparoscopia mediante l’introduzione degli strumenti chirurgici attraverso 4 o 5 piccole incisioni cutanee.
I tumori maligni dei tessuti molli, detti anche sarcomi, sono neoplasie che originano da diversi tipi di tessuti, quali adiposo, muscolare, nervoso, fibroso e vascolare, e possono localizzarsi in qualsiasi parte del corpo, anche se la sede più frequente è rappresentata dagli arti. Questi tumori, di cui si conoscono oltre 50 tipi istologici differenti, possono colpire tutte le età, peraltro con un picco di incidenza intorno ai 50 anni. I fattori di rischio non sono completamente conosciuti, anche se l’esposizione a radiazioni ionizzanti (compresa la radioterapia) e ad alcune sostanze chimiche (diossina, cloruro di vinile …) sembra costituire un elemento in certa misura favorente lo sviluppo di tali tumori. Ad ogni modo, i dati epidemiologici dimostrano che nella storia clinica della maggior parte dei pazienti non emerge in alcun modo l’esposizione ai fattori di rischio suddetti. Un aspetto fondamentale rimane comunque la diagnosi precoce della neoplasia, onde pianificare il trattamento più opportuno ed efficace.
La sintomatologia dei sarcomi dei tessuti molli si riassume fondamentalmente nella comparsa di una tumefazione locale, di dimensioni progressivamente crescenti nel tempo, e nell’insorgenza di dolore, spesso refrattario ai farmaci anti-infiammatori, legato alla compressione di organi viscerali o rami nervosi ad opera della massa tumorale.
La diagnosi, talora piuttosto indaginosa (non è infrequente nelle fasi iniziali della malattia l’errata interpretazione della tumefazione come “ematoma” o “cisti”), si avvale di una serie di indagini strumentali quali l’ecografia, la TC con mezzo di contrasto, la RMN o, nei centri che ne sono in possesso, la PET. Una TC del torace e una scintigrafia ossea sono opportune per esplorare le sedi anatomiche più frequentemente interessate da eventuali localizzazioni metastatiche, i polmoni e, rispettivamente, lo scheletro osseo. Da proscrivere tutte quelle manovre (punture esplorative, agoaspirazioni) che comportano un rischio non indifferente di disseminazione di cellulr tumorali nei tessuti sani circostanti.
La prognosi dei sarcomi dei tessuti molli è strettamente condizionata dall’esame istologico sul pezzo operatorio, in virtù del quale è possibile stabilire il grado di aggressività biologica della neoplasia (sarcomi a bassa e alta malignità). Ovviamente l’evidenza preoperatoria di una diffusione della malattia oltre i confini della sede di insorgenza è un fattore che impoverisce ulteriormente la prognosi.
La scelta del trattamento è legata al tipo istologico, sede e dimensioni del tumore, età e condizioni generali del paziente. Fondamentalmente è possibile adottare tre tipi di opzioni terapeutiche: chirurgia, radioterapia e chemioterapia. La chirurgia rappresenta la modalità standard per la malattia in fase locale limitata, eventualmente integrata con radio/chemioterapia, e prevede l’asportazione radicale della lesione avendo cura di ottenere dei margini adeguati di sicurezza allo scopo di prevenire la comparsa di recidive locali e, se possibile, conseguire risultati esteticamente apprezzabili. Il trattamento chemio/radioterapico trova indicazione nella malattia in fase localmente avanzata, nei pazienti non candidabili alla chirurgia radicale e nei sarcomi ad alta malignità in associazione alla chirurgia.
Le ghiandole surrenaliche sono responsabili della sintesi e secrezione di aldosterone, cortisolo, steroidi sessuali e catecolamine. I tumori del surrene possone essere funzionanti, cioe’ secernere ormoni, o non funzionanti. Nel caso di eccessiva produzione di aldosterone il paziente presenta astenia, affaticabilità, ipertensione, crampi muscolari. Se l’ormone in eccesso è il cortisolo si verifica un accumulo di grasso al volto, al collo, al tronco e all’addome, con astenia, irsutismo e ipertensione. In presenza di eccesso di catecolamine si possono verificare ipertensione stabile associata a crisi ipertensive. In presenza di un adenoma del surrene funzionante e nei casi di adenomi non funzionanti che aumentano di dimensione nel tempo, il trattamento consiste nell’asportazione della ghiandola per via laparoscopica.